Leone Spita. Architetto, dottore di ricerca in “Composizione Architettonica: Teorie dell’architettura”, professore associato presso la Facoltà di Architettura di Roma La Sapienza, docente di Composizione architettonica e urbana, autore di monografie, saggi ed articoli sull’architettura e la città contemporanea. Dal 2018 è a capo della ricerca interdisciplinare “Dentro la moda, intorno all’architettura: La sperimentazione architettonica negli interni per la Moda e lo spazio culturale del fashion realm”.
Nella sua ricerca, “Dentro la moda, intorno all’architettura” si affronta la cultura materiale ed identitaria del sistema moda insieme al suo stretto legame con il mondo dell’architettura e della sperimentazione tecnologica applicata alla città, così come all’interior design, alla produzione, alla vendita, al consumo ed all’esposizione della moda stessa. Cosa vuol dire costruire uno spazio dedicato alla moda e quali sono le richieste qualitative e prestazionali che vanno oltre la sua configurazione spaziale?
Le attività del fashion designer e dell’architetto propongono stili di carattere estetico, stili comportamentali e presuppongono una progettazione complessa. Si tratta di interventi ragionati sulle forme, di desiderio di racchiudere lo spazio in armonie, di ricerca e di innovazione tecnologica che non si può limitare al prodotto, ma che deve coinvolgere tutte le fasi e gli strumenti del linguaggio, di comunicazione e di relazione con gli utenti finali. La cultura materiale e identitaria del cosiddetto “sistema moda” ha, da sempre, cercato stretti legami con il mondo dell’architettura e della sperimentazione tecnologica applicata agli interni per la produzione, la vendita e l’esposizione.
Sia la moda che l’architettura hanno lo scopo di definire, costruire l’ambiente sul quale operano, l’una il corpo umano e la persona, l’altra gli spazi e i luoghi. Quali analogie, affinità e differenze si possono riscontrare?
Ogni qualvolta mi si chieda una riflessione sul binomio Architettura-Moda, mi piace ricordare una frase di Walter Benjamin: “Architettura e Moda appartengono all’oscurità dell’attimo vissuto, alla coscienza onirica del collettivo”. La citazione è tratta dagli appunti per Über den Begriff der Geschichte, che avrebbero dovuto essere l’introduzione del Passagen-Werk, al quale il filosofo lavorò dal 1927 fino alla sua morte nel 1940, e rimasto, dunque, incompleto. Le parole di Benjamin ci fanno riflettere sul fatto che architettura e moda esprimono idee di identità sociale e culturale e riflettono gli interessi degli utenti e l’ambizione dell’età. Credo che sia la moda che l’architettura intercettino, attraverso il loro prodotto, anche il cambiamento delle città e lo esibiscano: l’una lo fa abitando corpi, l’altra vestendo i luoghi.Così come l’architettura non si limita a produrre forme o a realizzare un programma funzionale ma orienta con le sue stereometrie l’attività umana, il design applicato alla moda non ha come fine l’oggetto (l’abito) ma attraverso l’abito mira ad intervenire sul comportamento dei singoli individui. La storica Giovanna Motta, che con me e Alessandra Capanna ha curato il volume “Strumenti. Architettura e moda, radici culturali, specificità tecniche” [1], chiarisce con grande acutezza che la moda, lungi dall’essere “leggera”, riesce, così come fa l’architettura, a dare profondità ai contenuti culturali, a rappresentare le trasformazioni dei sistemi politici e le rivoluzioni sociali, a racchiudere in sé elementi della tradizione e dei cambiamenti, a confermare i dati del passaggio da un’epoca all’altra.
Esistono differenze nelle modalità di approccio alla progettazione di questi spazi tra le esperienze italiane e quelle internazionali?
Non si possono considerare i diversi approcci alla progettazione degli spazi dedicati al fashion realm, in Italia e nel resto del mondo, senza considerare i significativi cambiamenti avvenuti dagli anni Novanta del secolo scorso nelle strategie del citato sistema moda; si tratta del periodo nel quale le più importanti maison vengono acquistate dai due grandi gruppi del lusso (Lvmh e Kering). I flagship stores acquisiscono un’importanza capitale nelle strategie di marketing. In questo scenario, l’architetto è chiamato a svolgere un ruolo chiave: tradurre in forme tangibili i valori sottesi dal marchio, fornendone un’immagine seducente e riconoscibile. Il progettista di fama internazionale conteneva in sé un elemento di richiamo per l’opinione pubblica e perciò le case di moda ne richiesero il lavoro creativo. Lo speciale connubio fra architetto e fashion designer ha portato nelle principali capitali del mondo al fiorire di flagship stores, che spesso costituiscono un terreno fertile di sperimentazione formale, funzionale e materiale dell’architettura. Un caso emblematico è rappresentato dal Giappone, per me un inesauribile terreno di indagine. A Tokyo, nei quartieri alla moda come Ginza, Omotesando e Aoyama, si consuma dagli anni Duemila quella che ho più volte definito: “la guerra dell’esibizione del lusso”. Penso, solo per citarne alcuni, alle alte canne di bambù in metallo rivestito con un coating color oro della Ginza Tower di Armani progettata da Massimiliano Fuksas; la torre con struttura di vetro mattoni di Renzo Piano per la maison Hermés; il poliedro trasparente di Herzog & De Meuron per Prada; il prisma perforato da bucature irregolari disposte con apparente casualità di Toyo Ito per Mikimoto; il diafano volume di SANAA per Dior; le vele di vetro curvato di Jun Aoki, per Louis Vuitton. E potrei continuare, in una sequenza di edifici iconici che si stringono l’uno acconto all’altro e che mi fanno sempre pensare alla Via Novissima, i venti, i portali scenografici che, come un nuovo spazio urbano, Paolo Portoghesi fece realizzare nell’architettura antica dell’Arsenale per la prima Biennale di Architettura (1980). Nel programma edilizio dei flagship stores, che punteggiano le strade alla moda nelle capitali del mondo, sono stati inseriti anche boutique hotel, ristoranti, caffetterie e bookshops. È la loro immagine che provoca un’esperienza nei clienti: i colori, i materiali e la forma della facciata riflettono l’ethos e i prodotti più iconici della casa di moda. Tuttavia, per riprendere la domanda, vorrei sottolineare che la differenza sostanziale tra la modalità di approccio alla progettazione di spazi per la moda in Italia e nel resto del mondo risiede nel fatto che, se pensiamo a Roma e Milano, i fashion retail non saturano un infill come nelle strade del lusso prima descritte ma, al contrario, si inseriscono quasi sempre in strutture esistenti, il più delle volte di grande valore storico-architettonico. La progettazione è tutta contenuta all’interno del volume costruito. Per dirla con le parole di Adolf Loos, la facciata è muta, parla la vetrina e lo spazio interno.
Sia l’architettura che la moda comunicano attraverso il loro operare una idea di costruzione di una immagine, come si coniuga questa attività con la scelta e definizione di materiali, processi realizzativi e tecnologie?
Ad una latitudine opposta a quella giapponese, è emblematico il caso-studio del flagship store di Fendi a Roma, all’interno del Palazzo Boncompagni Ludovisi, un edificio costruito a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, in Largo Goldoni alla fine di via dei Condotti. A seguito dell’importante restauro e rifunzionalizzazione dell’intero edificio-isolato, l’architetto francese Gwenael Nicolas riesce nell’intenzione di preservare la tradizione italiana (e romana). Roma Palazzo Fendi costituisce un esempio di come un progetto architettonico riesca a interpretare l’identità del brand, amplificandone il messaggio: lo fa attraverso colori, forme e materiali. Tutto il lavoro si sviluppa all’interno: le tonalità beige del palazzo richiamano l’iconica pelletteria in colori neutri del marchio; gli inserti di marmo, pietra calcarea e argento vengono percepiti come una citazione dell’opulenza dell’antica Roma; la colorazione irregolare, finanche il luccichio dei materiali ricordano la pelliccia, un capo ricorrente nelle collezioni di Fendi. Le forme mutevoli, verticali e rettangolari degli espositori rimandano alla rigorosa geometria del logo (la doppia lettera F) che si riflette anche nelle linee ortogonali del soffitto. Gli spazi di vendita sono organizzati su due piani, collegati da una monumentale scala in marmo di Lepanto. Nel foyer, la parete di travertino romano si fa convessa ed esibisce tracce della facciata dell’iconico Palazzo della Civiltà Italiana (1939-53) progettato da Guerrini, Lapadula e Romano e diventato nel 2013 il quartier generale del gruppo Fendi. Un altro esempio italiano d’utilizzo di un edificio storico, laddove in altri parti del mondo un headquarter di una casa di moda avrebbe certamente occupato un edificio di nuova costruzione.
Guardando al rapporto tra architettura e moda, quali potrebbero essere gli scenari futuri?
Vorrei parlare di una ricerca sperimentale sulle trasformazioni delle morfologie dei futuri spazi di esibizione e vendita della moda, che dal 2018 sto conducendo con un nutrito gruppo di studiosi, provenienti non solo dalle discipline dell’architettura ma anche dalle scienze sociali. L’esperienza progettuale è precedutam dalla consapevolezza che il cambiamento degli spazi commerciali della moda è meno veloce di quanto si immagini: ancora oggi la maggior parte degli acquisti avviene dentro le mura di uno spazio fisico, realizzato, per così dire, in mattoni e malta. Il consumatore è ancora una creatura intrinsecamente sensoriale e tattile; tuttavia, l’assedio dell’e-commerce potrebbe portare alla stagnazione e l’autocompiacimento dello spazio di vendita tradizionale. I nuovi sistemi di vendita e i potenti strumenti dello storytelling presenti all’interno del mondo della moda hanno guidato lo sviluppo di un nuovo tipo di interno-architettonico che riesce a veicolare in un luogo fisico una serie di pratiche che ancora non sono state decodificate. Per la definizione del progetto, il gruppo di ricerca si è servito anche di alcuni sistemi di intelligenza artificiale che di recente si sono affiancati al mondo della progettazione architettonica e della scrittura di contenuti (Content Writing). Attraverso brevi testi, che in gergo informatico si chiamano prompt, abbiamo fornito all’AI (Artificial Intelligence) un numero di indicazioni per la produzione di immagini che rappresentino alcune caratteristiche dei nuovi spazi di vendita. Le indicazioni riguardano non solo soluzioni spaziali, ma anche concetti filosofici, nuovi modelli di vendita, l’utilizzo di apparecchi tecnologici e di nuovi sistemi di comunicazione. La relativa imprevedibilità di questo strumento consente di sviluppare soluzioni progettuali inaspettate, ma sempre controllate dal progettista. Nei tre metaprogetti è stato definito uno spazio neutro che viene acceso dallo storytelling che si attiva attraverso la realtà virtuale e che produce l’esperienza immersiva richiesta. Gli esiti finali sono contenuti nelle tavole che concludono il libro, Architecture Meets Fashion [3] in cui si è cercato di sottolineare non solo l’aspetto estetico-formale delle soluzioni progettuali proposte, ma anche di tradurre in semplici schemi la variazione del peso, in termini di metri quadri, delle funzioni all’interno dello spazio di vendita. Il tema principale è la forte diminuzione dello spazio espositivo a favore di quello esperienziale. Pensando a scenari futuri, credo si debbano accogliere sempre di più tematiche compositive che forniscano una traduzione dell’essenza/ idea in evento/esperienza, aprirsi a sperimentazioni di linguaggi e tecniche, come territori di esplorazione condivisi dove ci siano interrogativi aperti. Si tratta di una progettazione complessa che presuppone interventi ragionati sul tessuto della città e sulle forme dell’architettura in rapporto a quelle del desiderio.
Riqualificazione energetica e sismica, durabilità e salubrità dei materiali. Possono affidabilità e avanzamenti della tecnica costruttiva corrispondere al miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti degli edifici e della città?
Certamente sì. Una serie di fattori ha guadagnato crescente attenzione fa par te della ricerca e della produzione edilizia e certamente vi è forte attenzione per il contributo che le tecniche possono dare alla qualità della vita. È fondamentale alimentare contesti trasversali di discussione, in cui si riescano a produrre avanzamenti di rilievo sul fronte tecnico rispetto alle condizioni di benessere abitativo complessivo integrandole con le dimensioni più generali e comprensive della progettazione urbanistica e architettonica. Il rischio altrimenti è quello di un fuoco ristretto alle prestazioni degli edifici, quasi fossero oggetti inabitati.
Il laterizio, materiale antico ma ampiamente evoluto per le caratteristiche sia prestazionali che figurative, che ha attraversato la storia del costruire indenne dai capricci delle mode e da sterili forme di spettacolarizzazione. Che contributo o nuova chiave di lettura può dare all’ecosistema del fashion, che per sua natura è stagionalmente mutevole e spesso tendente al sensazionalismo?
Penso che questa deriva al sensazionalismo sia equamente distribuita sia nella moda che nell’architettura. Al pari dell’architettura, con la presenza del fenomeno delle archistar, nella moda non è più solo il pregio del materiale a determinare il lusso, ma l’aura del nome e della fama delle grandi case produttrici, il prestigio dell’etichetta: brand architecture e brand clothing che spesso inseguono il principio dell’escalation e dell’eccesso e danno luogo a sistemi di sfida iperrealistici ed emozionali, più che simbolici. Per rispondere a questa domanda dovremmo porci un altro interrogativo: l’architettura, che è una disciplina lenta, in che modo può interpretare per il sistema moda l’incessante ricominciare e ritentare un nuovo che sempre invecchia? Nell’architettura per la moda occorre innovare, creare, spettacolarizzare, ringiovanire l’immagine. Ma è anche necessario dare spazio al tempo, perpetuare la memoria, creare un’aurea di atemporalità, e in questo senso le caratteristiche prestazionali e figurative del laterizio potrebbero essere utili a fornire allo spazio costruito, potremmo definirla, un’immagine di durabilità, solidità, quasi di eternità. Penso all’interessante operazione di recupero archeologico industriale del Gucci hub (Piuarch, Milano 2016), dove i capannoni a shed in mattoni a faccia vista hanno riacquistato la loro dignità in un restauro che ha saputo esaltare il carattere industriale dei volumi costruiti negli anni ’20, operando necessarie demolizioni di volumi incoerenti senza il timore di inserire un nuovo edificio che si differenziasse per forme e materiali. Il nuovo parallelepipedo, fasciato da scuri frangisole metallici, esalta il mattone a faccia vista delle campate del complesso. Il laterizio, in questo caso, è materiale da costruzione che diventa “sostanza-mattone”. Per spiegarlo, prendo a prestito un concetto dell’architetto giapponese Kengo Kuma, al quale ho dedicato molti anni di studio e una monografia. Kuma ci insegna a non considerare il materiale come una finitura; ciò che egli definisce “la mappatura della texture applicata alla superficie” è solo una pelle di circa 20 mm, sovrapposta al calcestruzzo. È un metodo che ignora il materiale, la sua sostanza. Propone il concetto di “onestà del materiale” che, mentre rompe la distinzione tra struttura e finitura torna a diventare sostanza. Ogniqualvolta che, come progettista, ho avuto l’opportunità di lavorare in contesti storici, penso al restauro di una limonaia del XVII sec. nel complesso “Villa Le Sentinelle” a Firenze [4], ho sempre tenuto a mente che il mattone è una sostanza che ha un’anima. Nel mito dell’“eterno presente” delle società, nelle quali si assiste alla smania per il rinnovamento e per l’obsolescenza accelerata dei prodotti e dei segni, è interessante scorgere, per compensare e riequilibrare, esigenze nuove di cose senza tempo, perenni, di beni che sfuggano alla fugacità dell’usa e getta.
Ernesto Maria Giuffrè,
Architetto, PhD, libero professionista