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Elena Germana Mussinelli

La rigenerazione urbana: una bussola per la qualità della vita

Elena Germana Mussinelli

Professore Ordinario in Tecnologia dell’Architettura presso il Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito (ABC) del Politecnico di Milano; Direttore editoriale di Techne, rivista scientifica della SITdA (Società Italiana della Tecnologia dell’Architettura, Vicepresidente 2017-20); Vicepresidente di UCTAT (Urban Curator Tecnologia Architettura Territorio), associazione culturale che promuove studi, progetti e contributi scientifici sulla rigenerazione dello spazio pubblico. Le sue ricerche trattano principalmente tematiche di rigenerazione urbana, recupero e valorizzazione di beni ambientali e culturali, sviluppando proposte per il miglioramento della qualità ambientale e sociale.

 

Il tema della rigenerazione urbana si sviluppa in continuità con i cambiamenti delle città e dei sistemi insediativi: rigenerare significa offrire nuove opportunità allo spazio fisico e agli individui che lo vivono orientando le azioni verso la lettura e la trasformazione del tessuto infrastrutturale e sociale con l’obiettivo generale di migliorare la qualità della vita di un luogo.
Quali sono, secondo lei, i fattori chiave per orientare gli interventi contemporanei di rigenerazione urbana?

Affrontare il tema della rigenerazione urbana significa in primo luogo parlare di interventi finalizzati a dare risposta a una nuova domanda di qualità fruitiva, ambientale e paesaggistica dello spazio urbano. Nel contesto italiano la rigenerazione urbana rappresenta per molti versi l’ultimo passaggio di un percorso legislativo e programmatorio che, già dalla fine del secolo scorso, ha posto l’attenzione sul problema del recupero urbano prima (PRU, 493/1993) e della ristrutturazione urbanistica poi (457/1978, DPR 380/2001), per giungere alla stagione dei cosiddetti programmi complessi (CdQ, PRUSST, ecc.): strumenti diversi con il comune obiettivo di far fronte all’obsolescenza tecnico-funzionale del patrimonio e all’emergere di fenomeni di dismissione e degrado fisico e ambientale delle città. In questo percorso, la rigenerazione urbana - dall’urban regeneration, renewal, rehabilitation, reactivation di matrice anglosassone - si caratterizza per accentuare la specificità di interventi pubblici e privati capaci di attivare processi complessi rivolti alla dimensione fisico-spaziale della città, ma anche di incrementarne i valori socioeconomici, culturali e ambientali. Quindi riqualificare e adeguare l’ambiente costruito a nuovi standard prestazionali, coniugando sviluppo e sostenibilità, contenendo i consumi di suolo e lo spreco di risorse.
È importante sottolineare la natura processuale e sistemica della rigenerazione urbana, molto più complessa delle tradizionali forme di intervento sul costruito, con la necessità di innescare trasformazioni estese e multi-obiettivo, attraverso molteplici misure integrate: urbanistiche, sociali, culturali, economiche e fiscali. L’esperienza internazionale mostra come le strategie di rigenerazione di molte città europee, da Parigi a Barcellona, da Lione a Monaco, abbiano individuato e perseguito due obiettivi prioritari tra loro integrati: lo sviluppo socioeconomico e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione su temi quali l’abitazione e i servizi; e la riqualificazione ambientale, su temi quali la mobilità, le emissioni inquinanti e climalteranti, il consumo di risorse non rinnovabili e l’energia, i rifiuti, le aree e i manufatti dismessi e/o degradati, il consumo di suolo. Basti richiamare la vision di lungo periodo a scala vasta della Communité urbaine di Lione, con la localizzazione strategica dei nuovi tecnopoli, il Plan Blue, il Plan Vert, il Plan Lumiere, il Plan d’amanagement dell’espace public, il Plan de protection du patrimoine architectural urbain, il Plan de Développement des Espaces Naturels, ecc., che già dagli anni ‘90 hanno dato luogo a centinaia di interventi tanto nelle aree centrali della città quanto nelle periferie, dal quartiere storico degli Etats Unit di Tony Garnier, alla banlieue de Les Minguettes. Quindi non generiche operazioni di sviluppo immobiliare, ma progettualità integrate e coordinate capaci di riverberarsi in modo diffuso oltre i confini dei singoli interventi, con benefici misurabili attraverso strumenti che integrano la valutazione tecnico-finanziaria con indicatori dei benefici sociali e ambientali. Francesco Karrer ha ben rilevato che simili strumenti, di prassi in diverse città europee, sono ancora poco utilizzati in Italia, dove l’efficacia della rigenerazione urbana non è quasi mai valutata: in parte perché non è richiesto per legge, ma soprattutto perché la cultura di una valutazione rigorosa ed esplicita non è nella sensibilità degli enti locali, che pure dovrebbero massimizzare i benefici pubblici e collettivi, né tantomeno in quella degli operatori.
Questa fase storica rappresenta un’occasione forse unica per la pubblica amministrazione di svolgere un importante ruolo di regia per azioni sistematiche di miglioramento della qualità ambientale e fruitiva delle periferie, rispetto a condizioni croniche di sotto dotazione di infrastrutture e servizi.

A livello nazionale sono stati numerosi iA livello nazionale sono stati numerosi icontributi stanziati in favore della riqualificazione ambientale di aree, infrastrutture e manufatti qualitativamente deboli. Il più recente Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare (PIN-QuA) pone lo spazio dell’abitare al centro del programma con l’obiettivo di promuovere l’incremento di accessibilità, funzionalità e sicurezza di luoghi degradati. Cosa pensa in merito al Programma e a queste possibilità di rigenerazione?

Il PIN-QuA è certamente un Programma di notevole rilevanza, che potrebbe avere grande impatto nella trasformazione del volto delle periferie di tante città italiane, soprattutto se le amministrazioni sapranno impiegare queste risorse massimizzando le possibili sinergie con altri investimenti, dai bonus sino al PNRR, che in vario modo intervengono sul patrimonio abitativo e le periferie (efficientamento energetico, riqualificazione edilizia, sicurezza, mobilità, servizi e infrastrutture sociali, green communities, accessibilità, beni culturali, ecc.).
L’impostazione e gli obiettivi del PINQuA sono molto chiari; altrettanto chiari gli indicatori per valutarne l’efficacia, molti dei quali direttamente riferiti agli impatti sociali e ambientali, quindi pienamente nel solco di una vera rigenerazione urbana. Il mio auspicio è che i progetti finanziati riescano ad attuarsi superando la settorialità e l’episodicità che hanno spesso caratterizzato esperienze precedenti, valorizzando al massimo questa prospettiva integrata.
Ma anche esprimendo attenzione e sensibilità ai caratteri e alle identità locali che connotano molti quartieri delle nostre periferie, il volano più importante per ulteriori e più estese dinamiche di rinnovamento.

Lei ha preso parte a numerosi contributi ed esperienze in grado di sviluppare proposte concrete per l’incremento della qualità dello spazio pubblico. In questo senso, quali sono le potenzialità inespresse e le nuove linee di ricerca?

Uno snodo essenziale è la riforma urbanistica, per una vera innovazione degli approcci pianificatori e progettuali, anche con una più stretta e coerente relazione tra piano e progetto, oggi quasi scomparsa, annegata dentro forme di rappresentazione “renderizzate” che poco dicono delle ragioni tecniche e della reale fattibilità e qualità ambientale degli interventi di rigenerazione urbana. Si veda il caso eclatante dell’operazione San Siro a Milano.
Alla “morte dell’urbanistica” già prevista da Luigi Mazza qualche decennio fa, corrisponde però l’emergere di sistemi di competenze qualificate e ben articolate sui temi della progettazione ambientale urbana. Tra le tante, posso richiamare il complesso lavoro coordinato da Mario Losasso sugli eco-distretti urbani, che sistematizza un percorso metodologico strutturato per la conoscenza e la sperimentazione progettuale di interventi di adattamento climatico delle città. Un approccio culturale e scientifico innovativo applicato nel vivo di tessuti e paesaggi urbani spesso caratterizzati - anche quando in contesti periferici e periurbani da preesistenze culturali e ambientali che devono essere necessariamente considerate lungo i processi di analisi, proposta e valutazione.
Questa ricerca, come tante altre sviluppate nell’Area Tecnologica, affronta un ambito tematico e scalare del progetto urbano molto importante, lasciato scoperto da approcci spesso limitati a una visione sociologica delle “politiche”, ineffettuali se non ricondotte alle regole di una “urbanistica tecnica” ben raccordata al progetto urbano e alla produzione edilizia.
La nostra ricerca e sperimentazione progettuale sullo spazio pubblico si connota viceversa proprio per la sua declinazione ambientale, climate-oriented e site-specific, ovvero di una gestione integrata delle problematiche procedurali, normative, tecnologiche e produttive che caratterizzano le reali condizioni attuative del progetto sotto il profilo della sua fattibilità e costruibilità, a partire dall’analisi delle criticità, attraverso la definizioni di specifici target quali-quantitativi il cui raggiungimento trovi riscontro nella verifica della conformità e dell’appropriatezza delle soluzioni adottate.

Recentemente Milano - sua città natale, di studi e di lavoro - ha raggiunto il secondo posto nel ranking “Qualità della vita 2021” de IlSole24Ore scalando ben dieci posizioni rispetto all’anno precedente: unacittà in continua trasformazione, in gradodi integrare soluzioni contemporanee conil patrimonio storico di comparti urbani.Cosa pensa di questo traguardo e qualisono i futuri progetti di maggiore interesse?

Al di là del valore relativo di questi ranking, è indubbio che Milano si è caratterizzata per la particolare intensità delle dinamiche immobiliari che, nell’arco di un decennio, hanno portato alla realizzazione di un considerevole numero di interventi. Senza entrare nel merito della loro qualità architettonica, che pure potrebbe essere oggetto di qualche considerazione critica rispetto alla capacità di rapportarsi correttamente ai caratteri identitari e paesaggistici della città di Milano, ho qualche dubbio sul fatto che tali interventi siano pienamente ascrivibili alla dimensione della rigenerazione urbana, così come ho tentato di definirla. Si tratta piuttosto di sviluppi immobiliari caratterizzati da elevatissimi valori di rendita, con volumetrie e densità insediative molto rilevanti, concepiti, attuati e gestiti da operatori privati in assenza di una regia pubblica in grado di orientare i progetti a obiettivi integrati di rigenerazione, anche ambientale e sociale, entro una visione complessiva della città e del suo spazio pubblico. Interventi quasi sempre conclusi in sé stessi, risolti nella loro autonoma configurazione morfo-tipologica, incapaci di riconoscere e valorizzare i caratteri paesaggistici della città, né di quella storica, né di quella moderna. Anzi, la maggior parte delle realizzazioni testimoniano piuttosto della loro cancellazione, per una passiva adesione a linguaggi architettonici e spazialità urbane molto lontane dalla caratteristica sobrietà milanese, ascrivibili piuttosto
agli stereotipi dell’immagine globalizzata e spettacolarizzata di quello che Phlippe Daverio acutamente definiva real estate design. Le realizzazioni si susseguono in modo discontinuo ed episodico, caso per caso, senza una guida pubblica capace di valorizzare ad esempio le potenzialità degli strumenti perequativi e compensativi per attuare una strategia di diffusa riqualificazione ambientale dei tanti luoghi periferici abbandonati al disagio sociale.
Le “periferie al centro”, uno slogan lanciato tante volte, ma nella realtà esse hanno beneficiato poco o nulla dei milioni di metri cubi direzionali e residenziali che hanno trasformato, e trasformeranno a breve, intere parti di città (Porta Nuova, City Life, Cascina Merlata-Uptown, il Business District Symbiosis, Spark 1 e 2, Pala Italia, i prossimi sviluppi degli scali Farini e Romana, Santa Giulia e il Pala Italia, MIND, l’Human Technopole, l’IRCCS Galeazzi e il Campus scientifico della Statale nelle aree exExpo 2015, CityWave, la torre Faro di A2A, il Trotter e San Siro, il progetto LOC-Loreto Open, Sei Milano, East Garden, Armonia 19, Skydrop, 5Square, solo per citarne alcuni), rendendole sempre più esclusive e gentrificate, persino nella fruizione degli spazi pubblici, la cui gestione è sempre più spesso affidata ai privati (si veda il lido BAM alla Biblioteca degli alberi, una sorta di grande spazio commerciale all’aperto dove d’estate si paga il biglietto per stare all’ombra). O consumando suolo agricolo, come nel caso di Figino, borgo “sostenibile”. Per le periferie e i luoghi più degradati della città, si pensi al caso eclatante di Ponte Lambro, al massimo qualche rammendo e un po’ di urbanistica tattica: piante stentate in vasi di plastica, un po’ di colore sull’asfalto e qualche murales, presto sbiadito, piste ciclabile ritagliate qua e là nel traffico. Per non parlare poi del problema della riduzione del disagio abitativo, che pure rappresenta un obiettivo centrale della rigenerazione urbana. Lo stesso Sindaco Sala, in una recente intervista, ha riconosciuto che “negli anni passati c’è stata una sovra offerta di appartamenti a prezzi molto alti”, aggiungendo che “è quindi ora che i costruttori capiscono che devono fare case a 3-4.000 € al m2” (salvo poi precisare che “per tanti sono già tantissimo”). Oggettivamente, mi sembra che anche qui siamo molto lontani dal dare risposte a una domanda sociale reale che nel 2018 registrava un fabbisogno irrisolto pari a oltre 230.000 vani. E non è certo un caso se una recentissima ricerca realizzata dalla Uil e dal centro studi Eures ha eletto Milano “capitale delle disuguaglianze”. Il capoluogo più benestante d’Italia, con un reddito medio di oltre 35.000 euro, dove si concentra il 54% dei super ricchi italiani, valutato attraverso l’indice di Gini (indicatore sintetico del grado di concentrazione/distribuzione dei redditi), è anche il luogo in Italia dove la disuguaglianza è maggiore e dove la differenza tra ricchi e poveri si rende particolarmente leggibile nella geografia dei quartieri. L’immagine iconica del “modello Milano”, comunicata in tutto il mondo attraverso la spettacolarizzazione del fenomeno architettonico, sta purtroppo sovrastando una più attenta e approfondita lettura critica di tante criticità irrisolte.

Quali attività svolge l’Associazione UCTAT (Urban Curator Tecnologia Architettura Territorio) e quali possono essere le ricadute di tali attività sulla città?

Urban Curator TAT è un’Associazione Culturale che promuove studi, progetti, pubblicazioni e conferenze sui temi della rigenerazione, con l’obiettivo di promuovere il dibattito sulle trasformazioni urbane, in particolare nel contesto della città di Milano, attraverso processi partecipati fondati sulla conoscenza, la competenza progettuale e la condivisione delle scelte strategiche tra soggetti istituzionali e cittadinanza. L’Associazione, presieduta da Fabrizio Schiaffonati, è nata nel 2016 per il comune interesse di docenti universitari, architetti, professionisti, urbanisti e studiosi di problemi economico-sociali, ed è aperta a quanti ne condividono gli obiettivi statutari. In questi anni abbiamo organizzato più di dieci tra convegni, seminari e workshop, su questioni centrali del dibattito contemporaneo, dal futuro degli scali ferroviari alla riapertura dei Navigli, ragionando su temi quali l’identità dello spazio pubblico milanese, il ruolo dei Municipi, il debat public e i processi partecipativi di decentramento progettuale, la rigenerazione urbana negli strumenti attuativi del piano, ecc. Anche formulando proposte progettuali per rigenerazione di alcuni ambiti del sud Milano. Attività che sono documentate dal nostro sito (urbancuratortat.org), in una newsletter mensile e in alcune pubblicazioni.

Massimo Mariani,
Architetto, PhD, Assegnista di ricerca, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre