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Paolo Felli

L’edilizia ospedaliera ieri, oggi e domani

Paolo Felli
Professore Ordinario Emerito presso l’Università degli Studi di Firenze, fondatore del Centro Studi Progettazione Edilizia (CSPE), membro di numerose associazioni nazionali e internazionali tra le quali Public Health Group PHG/UIA, International Academy for Design and Health oltre alla Società Italiana di Tecnologia dell’Architettura (SITdA) di cui è stato Presidente. Tra i suoi scritti si rilevano due monografie sull’edilizia sanitaria e tra le realizzazioni con il CSPE numerosi interventi di edilizia ospedaliera tra i quali l’Ospedale Pediatrico Meyer a Firenze, gli Ospedali Riuniti della Valdichiana a Montepulciano e l’Ospedale Generale di Modena.

 

Se dovesse sinteticamente definire lo stato e le evoluzioni della cultura progettuale dell’edilizia ospedaliera negli ultimi 50 anni, quali aspetti riterrebbe si siano evoluti maggiormente?

Negli ultimi decenni è cambiato il mondo, è cambiata la nostra società. All’inizio della mia attività lavorativa l’ospedale pubblico era l’ospedale per i poveri. L’organizzazione sanitaria prevedeva, da una parte, gli ospedali per i poveri, dall’altra, le case di cura per i ricchi: i livelli di qualità degli spazi e di organizzazione delle camere erano molto diversi: basti pensare che nell’ospedale le camere erano dimensionate per ospitare 32 posti letti, poi con il tempo passarono a 16 e a 8, segno di una evoluzione della qualità degli spazi. Negli anni Sessanta un’altra caratteristica della organizzazione sanitaria era la figura del clinico specialista, che molto condizionava il progetto perché intorno a questa figura gravitavano tutte le attività. Ogni settore dell’ospedale aveva la stanza del primario che era la stanza di riferimento e di comando di tutto il complesso e accanto a essa erano organizzate le altre funzioni che l’attività sanitaria determinava.
Quello che è cambiato nel tempo è l’evoluzione verso una organizzazione ospedaliera diversa, non più per singole specialità ma verso un ospedale finalizzato alla gestione della gradualità di cura e della gravità dell’utente. L’attenzione verso il paziente è divenuta nel tempo un riferimento sempre più importante: il termine stesso “paziente” si è evoluto diventando prima “utente”, poi “cittadino”, termine che include una nuova dimensione della persona, che oggi ha anche la possibilità di contestare il trattamento ricevuto durante il suo iter sanitario. Questo concetto nasce negli Stati Uniti per poi diventare, dall’inizio del secolo, un elemento imperante che ha cambiato anche il tipo di attenzione e di rapporto che c’era all’interno dell’ospedale: prima la cura era un atto di misericordia, un atto di cui non si discutevano i termini, invece oggi si valuta e si contesta, anche adendo alle vie legali. La figura del clinico è stata superata da una visione più complessa e, soprattutto, con il mondo dell’informatica, si è sviluppata la possibilità di costruire e condividere in rete la conoscenza: i nuovi medici non hanno più il mito del primario come capo supremo ma divengono più importanti le relazioni che si hanno a livello nazionale e internazionale sulla conoscenza medica e sulle terapie che vengono utilizzate. In sintesi, quello che è cambiato mi sembra sia il tipo di attenzione verso l’utente, le camere da grandi stanzoni indifferenziati sono diventati ambienti in cui si tende a realizzare la stanza singola ed è il medico che si sposta al letto del paziente anziché essere il medico il centro dell’attenzione e dell’organizzazione sanitaria. Inoltre, è il personale infermieristico che si occupa in prevalenza del paziente e se ne occupa in relazione alla gravità della cura.

I progetti in ambito ospedaliero del CSPE si relazionano con il paesaggio naturale, come nell’Ospedale San Giovanni di Dio a Torregalli, e con il costruito preesistente, come nel Centro Oncologico Toscano di Villa Ragionieri a Sesto Fiorentino. Quali sono le chiavi di lettura di questi temi in un progetto complesso come quello ospedaliero?

È un tema abbastanza complesso perché come architetti siamo spinti a dialogare con figure con esigenze anche molto differenti e a trovare tutti i riferimenti necessari nel contesto. Essendo però quelle dislocate nel progetto ospedaliero funzioni molto significative, è necessario trovare un equilibrio tra le esigenze che vengono dalla morfologia del terreno e dalle caratteristiche paesaggistiche e le esigenze di funzionamento interno che sono molto più forti di quelle di altre tipologie di edifici. Io e Antonio Andreucci abbiamo iniziato a occuparci di ospedali quando allora la progettazione degli ospedali era in mano agli ingegneri. Era un campo di progettazione in cui le esigenze funzionali erano fortemente determinanti e in cui la qualità dello spazio non era posta in prima istanza. Noi ci siamo posti come primo problema quello di privilegiare la qualità architettonica anche attraverso il rapporto con il contesto.

Può indicare due progetti, del CSPE o di altri progettisti, che possano essere ritenuti emblematici perché in grado di soddisfare meglio di altri le esigenze degli utenti e della committenza. Quali caratteri o momenti del processo e del progetto ritiene siano più determinanti?

Io sono contrario a fare delle scelte perché ogni progetto ha una storia, i suoi momenti di difficoltà, le sue lotte, i suoi aspetti contingenti e la fatica soprattutto di arrivare al risultato. Un ospedale da noi progettato esito di grande impegno è stato certamente l’ospedale di Foligno. Nasce in un momento in cui si discuteva molto sulle tipologie, l’ospedale a padiglione era scomparso però quelli a piastra e a torre permanevano; lavorammo molto sulla tipologia, purtroppo non potemmo seguire fino in fondo la direzione lavori, avemmo solo la direzione artistica e questo ha limitato il nostro coinvolgimento nelle scelte nella fase costruttiva. Diversamente, il complesso che abbiamo seguito maggiormente è stato certamente il nuovo polo pediatrico Meyer, perché abbiamo svolto l’incarico dalla progettazione preliminare all’esecutiva fino alla direzione lavori: la continuità lungo tutto il processo progettuale e realizzativo ha consentito di verificare le nostre idee. Ritengo un aspetto determinante, e purtroppo assente nella progettazione ospedaliera, la verifica ex post del costruito, in primis perché per verificare bisogna avere delle idee, discuterle, confrontale, realizzarle, e poi verificarne il funzionamento o meno; tuttavia questo è possibile solo se si ha continuità nelle fasi processuali. La mancanza di verifica ex post è una situazione tipica in Italia, a differenza di altri Paesi dell’Europa, del Nord Europa in particolare, dove la verifica e il controllo appartengono alla cultura del costruire e quindi c’è attenzione a controllare se le idee corrispondo a dei risultati. Si può cercare di migliorare la fase progettuale al massimo coinvolgendo le persone, però la pratica e la realtà devono fare i conti frequentemente con l’arrivo di fenomeni nuovi (la medicina è un settore che si trasforma con una rapidità enorme). La questione coinvolge non solo l’assenza di una fase ma anche chi la dovrebbe gestire: gli uffici tecnici delle Asl sono spesso inadeguati; le Regioni sono generalmente impegnate in operazioni di programmazione; il rapporto tra il personale tecnico inserito all’interno delle strutture ospedaliere e i servizi da gestire è spesso squilibrato. In Austria ho visitato recentemente un ospedale di nuova costruzione, il Krankenhaus Nord des Wiener Krankenanstaltenverbunds, fuori dal centro di Vienna, una struttura da 600 posti letto circa, con 150 tecnici laureati che seguono la gestione dell’edificio; la struttura è organizzata sulla base di una triade rappresentativa della gestione dell’ospedale: il direttore amministrativo, il direttore sanitario e il direttore tecnico. Quest’ultima figura in Italia è generalmente assente e il tecnico laureato non è al servizio di una direzione tecnica ma di una direzione amministrativa. In Italia solo alcune situazioni più avanzate, come in Veneto e in Emilia-Romagna, incominciano a comprendere l’importanza della gestione dello spazio e delle tecnologie.

Lei ha scritto che “creatività e ingegno non possono prescindere da un’interfaccia continua con le competenze multidisciplinari che arricchiscono il progetto e che sono alla base di una progettazione consapevole”. Come crede si evolveranno nei prossimi anni il pensiero progettuale, la prassi e la ricerca nell’ambito dell’edilizia ospedaliera?

Rispetto al resto dell’Europa, l’Italia è in ritardo di circa 20/30 anni. Ad esempio, in Italia la manutenzione non esiste o è comunque trattata con superficialità. Così come gli aspetti gestionali. Noi pensiamo di costruire per l’eternità, mentre nella realtà le esigenze cambiano e i materiali si deteriorano. Negli altri Paesi ci sono maggiori cultura e investimenti in ricerca, maggiore senso di responsabilità e dialogo tra le diverse categorie di operatori. Può capitare, proprio per mancanza di dialogo, che alcune soluzioni tecniche non consentano agli operatori sanitari di lavorare agevolmente: questo comporta la necessità di intervenire sull’edificio per adattarlo a esigenze non correttamente considerate, anche con trasformazioni costose. Non si possono trascurare i ruoli dei diversi operatori ed è necessario mettersi nella condizione di valutare come interessi, talvolta contrastanti, riescano a essere risolti per eli- minare o almeno ridurre fenomeni di spreco e di malfunzionamento. Ritengo che l’evoluzione sarà orientata a una maggiore coscienza e importanza dei tecnici all’interno degli ospedali. Prima accennavo come il mondo dei medici sia molto cambiato verso un approccio lavorativo in equipe e in rete: le terapie che vengono sta- bilite a Firenze possono essere seguite a Londra o in qualunque altro luogo, c’è uno scambio continuo. Questo tipo di scambio spesso non è presente tra i progettisti. È un discorso sul quale bisogna riflettere trovando dei meccanismi che favoriscano i sistemi di collaborazione.

Alcuni dei progetti del CSPE, come quello dell’Ospedale Pediatrico Meyer, sono considerati ospedali innovativi. Durante il Forum Sistema Salute 2019, tenutosi alla Stazione Leopolda di Firenze lo scorso ottobre, ha presentato il progetto “Ospedale del futuro” in cui delinea un modello di ospedale ideale: potrebbe descriverlo in poche parole?

Ritengo esistano due aspetti fondamen- tali nella progettazione dell’ospedale. Uno è quello relativo alle costanti che determinano la struttura interna dell’ospedale: la tipologia e l’organizzazione funzionale. Come dovrebbero essere per determinare l’ospedale migliore a prescindere dal contesto, come elementi ripetibili. Su questo abbiamo lavorato seguendo un po’ l’esempio di quello che succede negli Stati Uniti, dove ci sono organizzazioni che gestiscono strutture per utenti che in realtà sono degli assistiti, ossia lo stesso utente è un “assicurato”: l’assicurato e l’assicurazione determinano la struttura degli ospedali. Nella struttura degli ospedali c’è sia quanto funzionale alle attività non dedicate alla cura strettamente intesa sia quanto relativo all’attività sanitaria vera e propria. Questo ha dato esito a tipologie ospedaliere con alcuni elementi invarianti e alcuni variabili che nel tempo vengono adeguati alle esigenze determinate dal cambiare dei tempi. Il secondo aspetto è la collocazione nel contesto. Rispetto a essa la storia dell’architettura ci mostra che alcuni edifici hanno un grado di permanenza molto più forte di altri. Nell’ospedale del futuro abbiamo cercato di individuare un ospedale ottimale che non fosse un ospedale piccolo ma nemmeno un ospedale enorme (il dimensionamento ottimale è di 300-400 posti letto) in esso abbiamo ragionato per ridurre al massimo le percorrenze e le distanze interne e per ottenere alcuni livelli di flessibilità differenziata. Mi spiego meglio: alcuni servizi negli ospedali variano con grande rapidità, non mi riferisco alla degenza la cui variabilità è lunga nel tempo, ma ad esempio a tutte le attività legate all’ospedale di giorno; molti servizi hanno una variabilità che va dai 5 ai 10 anni. Nell’ospedale dunque ci sono parti che hanno un grado di permanenza maggiore e altre che hanno un grado di variabilità molto maggiore. In queste ultime è indispensabile, per determinarne un buon esito progettuale, il rapporto con gli utenti che sono non soltanto i pazienti, ma gli staff operativi, gli staff amministrativi e gli staff gestionali. Con essi è necessario instaurare un feeling molto diretto, per evitare che gli interventi rischino di rendere fallimentari le intenzioni progettuali più qualificate perché non capite: è un passaggio molto importante del percorso di progettazione. Il nuovo polo pediatrico Meyer è, in tal senso, un esempio perché su questo abbiamo investito tanto durante la fase preliminare. Molto spesso nel nostro Paese si tende a comprimere il tempo della progettazione piuttosto che i tempi di aggiudicazione dei lavori e cantierizzazione: ciò è sintomatico di una visione limitata del progetto, come se questo dipendesse da un unico professionista e non fosse il risultato di un dialogo costante tra progettisti, committente e utenti. I progettisti debbono trovare i modi per comunicare, oggi peraltro incrementati grazie al supporto dei mezzi informatici. Prima lavoravamo spesso con disegni e modelli, oggi con le simulazioni abbiamo una possibilità di dialogo molto maggiore.

Quale ritiene sia il ruolo dei materiali, come il laterizio, nella progettazione e costruzione di nuovi edifici sanitari o ospedalieri?

Il laterizio è un materiale stupendo. Un tempo era largamente impiegato come elemento portante. Oggi è ancora usato con il ruolo strutturale, ma prevalentemente per la realizzazione di involucri verticali, e come soluzione di rivestimento rimane insostituibile in molte zone del nostro Paese. Ad esempio, l’Ospedale di Foligno è un ospedale con un involucro verticale in laterizio proprio perché Foligno è una città costruita in mattoni e non potevamo prescindere dal rapporto con la tradizione.
Anche l’Ospedale di Montepulciano è un ospedale dove il laterizio recita una parte importante perché anche la cultura e il patrimonio senese sono in laterizio. Per un progettista il laterizio costituisce un costante stimolo, una sfida, perché una volta deciso il suo impiego è necessario scegliere la pezzatura, la soluzione d’angolo, gli elementi di bordo, i nodi con i serramenti, tutti aspetti che vanno attentamente ponderati. Il laterizio faccia a vista poi consente di fare poesia, riprendendo le logiche del passato per reinterpretarle in relazione alle più avanzate prestazioni a cui devono rispondere gli attuali edifici.

 

Laura Calcagnini
Ricercatore, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre