Maria Benedetta Spadolini
Professore ordinario di Design Industriale alla Facoltà di Architettura dell’Università di Genova, di cui è stata preside dal 2003 al 2009. Conduce ricerche sulle problematiche progettuali per l’utenza debole attraverso l’individuazione e la rispondenza ai requisiti prestazionali e l’utilizzo di tecnologie integrate. Coordina studi inerenti le strutture sanitarie, i prodotti per la sanità, il Sistema Design Italia, il design per la valorizzazione delle risorse locali e dell’area mediterranea.
Le città stanno cambiando in funzione dell’età e della longevità dei loro abitanti? In quali modi?
Sicuramente invecchiare oggi è davvero problematico soprattutto nelle grandi città perché c’è sempre più tecnologia e sempre più si determina un distanziamento sociale anziché un avvicinamento sociale. Sempre di più l’anziano avrebbe bisogno di non essere isolato; a parte alcune situazioni legate all’assistenza continua e quindi alle RSA di cui parleremo, l’anziano ha bisogno di vivere sempre di più in situazioni per quanto possibile protette, ma in autonomia. Dobbiamo partire dal presupposto che gli anziani non sono necessariamente malati. Gli anziani siamo noi che alle volte abbiamo la fortuna di invecchiare, ma non siamo abituati a utilizzare un ausilio o qualcosa che in qualche modo ci ricorda che in quel preciso momento abbiamo male al ginocchio e quindi per salire la scala abbiamo bisogno del corrimano. Quando oggi si costruisce, e qui parlo di architettura, non è più pensabile ipotizzare una casa dove non c’è la possibilità di accedere ai piani alti senza ascensore, e soprattutto senza un ascensore - oggi possiamo avere anche delle carrozzelle minuscole - in cui possano entrare dei piccolissimi oggetti di ausilio. Soprattutto nelle grandi metropoli troviamo anziani che stanno al quinto o al sesto piano e che non escono di casa da un anno o due. Chi li porta giù? Basta una patologia venosa alle gambe, basta un’artrosi a un ginocchio, basta pochissimo a determinare un’invalidità in una persona anziana. Ciò però non significa che quella persona debba andare a vivere in una struttura protetta, può anzi tranquillamente abitare in sicurezza all’interno del suo alloggio, ma deve avere la possibilità di uscire e muoversi, anche perché ormai è stato appurato che il movimento è la cosa più importante per farci invecchiare decentemente, poiché il cuore, il sistema muscolare e in generale tutto il nostro corpo funziona meglio. Quindi dobbiamo pensare ad appartamenti capaci di far invecchiare gli anziani in sicurezza.
Spazi interni e spazi aperti, spazi privati e spazi pubblici, quali sono le principali caratteristiche o strategie progettuali che possono favorire l’appropriazione dello spazio all’utente anziano? Parliamo per esempio degli spazi della casa.
Se vuoi far invecchiare un anziano in sicurezza devi farlo invecchiare in alloggi piccoli. Le vecchie case erano grandi anche 120 m2 se non di più, perché moltissimi anziani avevano delle famiglie numerose, facevano 4 o 5 o più figli, per cui le case occorrevano grandi. Quando però oggi io invecchio sia in coppia, sia se resto solo e voglio mantenere la mia autonomia di vita, più il mio alloggio è piccolo e più lo riesco a gestire. Se riesco a gestirlo da solo mantengo la mia autonomia della testa e del fisico. Per piccolo intendo un appartamento con la camera da letto, il bagno e la cucina-soggiorno. Tutti gli anziani vivono nella cucina.
Nella cucina si creano una specie di angolo, magari con una poltrona “protesica”. Significa che intorno a quella poltrona c’è il loro mondo: la poltrona ha accanto un piccolo mobiletto sul quale l’anziano appoggia spesso tutti i devices, che purtroppo sono uno uguale all’altro e che dunque si confondono, perché c’è Il telecomando della televisione, quello per le tapparelle, il telefono cordless, il cellulare; quante volte ho visto anziani che quando suona il telefono prendono in mano il telecomando della televisione e rispondono con quello! Ma non è colpa degli anziani, è colpa del fatto che noi architetti e designers continuiamo a progettare tutti gli oggetti uguali, perché devono essere semplici, devono essere minimali, con un’interfaccia stilisticamente “pulita”... ma questo significa che si tratta di un’interfaccia che l’anziano non comprende. In questo senso la tecnologia isola gli anziani, perché quella poca tecnologia che gli anziani stanno imparando a utilizzare, la imparano attraverso la vicinanza dei nipoti o dei figli. Oggi con la pandemia è in corso un disastro ambientale e generazionale senza precedenti: gli anziani sono segregati senza poter frequentare i loro nipoti, soprattutto i nipoti adolescenti che tecnologicamente sanno far funzionare tutto. Quando i giovani di oggi diventeranno sessantenni o ottantenni saranno molto più preparati, perché ormai chi non sa usare uno smartphone?
Non è però così per gli anziani di oggi. Quindi diventa importantissimo che l’anziano si crei degli spazi architettonicamente sicuri. Per esempio nei bagni ci dovrebbe essere una normativa che proibisce di avere porte non apribili verso l’esterno, ma per tutti, giovani e vecchi. I bagni grandi costituiscono un altro problema: il bagno grande è un guado per l’anziano, da attraversare. Se entra in bagno soprattutto la notte e non ha degli appoggi, come può essere già di per sé il lavandino, va a finire che cade e spesso può cadere davanti alla porta, che a quel punto io non apro più verso l’interno per soccorrerlo. Come, per esempio, è fondamentale avere il più possibile finestre che arrivino fino a terra, magari con una ringhiera, avere luce all’interno delle case. Bisogna immaginare che si può invecchiare e stare anche tanto nella condizione anziana, perché fino a qualche tempo fa si era vecchi per dieci anni, invece oggi si è vecchi per trenta. In tanti oggi invecchiano con una qualità della vita buona, perché la medicina avanza velocissima, e sta avanzando cento volte più di quanto non facciano l’architettura e il design. Siamo ancora in pochissimi a occuparci di questi problemi.
Questo numero della rivista presenta interventi di recenti realizzazioni di RSA; in caso di alcune specifiche patologie a questa tipologia edilizia non si può rinunciare. Stanno però prendendo piede soluzioni anche diverse, come quelle del cohousing, oppure quelle dell’assistenza a domicilio. Ci può aiutare a capire le ragioni e le caratteristiche di questi diversi orientamenti?
Se vogliamo invecchiare in queste città, e inevitabilmente saremo un popolo di vecchi, dobbiamo per forza creare o preservare dei micro tessuti urbani, a livello di quartiere. Perché si vive meglio nei paesi? Perché nei paesi la gente si aiuta tutta, si conosce, va nei negozi sotto casa. In città la gente si perde nei supermercati.
Quanti vecchi nel supermercato vagano fra gli scaffali, cercando in alto le scritte per orientarsi, ma spesso vengono messe scritte che accorpano prodotti anche diversi, e magari stanno cercando la loro tisana e non riescono a trovarla. Nel negozio sotto casa, quello di quartiere, hanno sempre trovato tutto. E poi nei paesi ci sono piccoli giardini, piccoli spazi dove anche nella buona stagione giocano a carte, vale a dire luoghi di aggregazione. Queste sono le cose fondamentali; è chiaro che in città come New York questa realtà non si può avere, ma in Italia sì. Ho fatto parte di un board scientifico in cui dovevamo delineare delle linee guida europee per come fare invecchiare in sicurezza l’anziano nelle città di oggi. Ho trovato dei muri in Europa, perché in tutto il nord Europa l’anziano è considerato una persona “da assistere”, una persona che ha bisogno di assistenza e che non essendo più produttiva viene isolata. Nel nord Europa hanno bellissime case di riposo, che però sono dei ghetti veri e propri, ed è rarissimo trovare anziani che invecchiano nelle proprie abitazioni perché ci sono anche servizi all’infanzia che suppliscono perfettamente il nonno. In Italia tutto questo non esiste, ci sono molti nonni che fanno una vita molto attiva occupandosi dei nipoti, ed è bellissimo fare il nonno, però spesso e volentieri ci sono dei nonni che sono obbligati a farlo perché i figli e i generi lavorano, quindi hanno bisogno di aiuto. Per questo serve il tessuto del quartiere a dimensione di anziano all’interno della città, perché si spera che i nonni e in generale gli anziani vivano vicini ai figli. Non possiamo allora continuare per esempio ad avere una segnaletica con i display e le scritte troppo piccole e veloci. Perché l’anziano usa così poco anche il bancomat? Non solo perché ha paura dei malintenzionati, ma perché le scritte sul bancomat viaggiano molto più veloci di quanto viaggiano nella testa di una persona che è semplicemente vecchia; non è malata, è una persona che sta benissimo, però ha bisogno di più tempo per assimilare l’informazione.
In un recente numero di questa rivista dedicato all’edilizia sanitaria abbiamo compreso come il laterizio sia stato in taluni casi preferito non solo per la naturalità, ma per l’aiuto offerto a orientarsi nello spazio e per il diffuso senso di familiarità che questo materiale è capace di infondere all’utenza più ampia. Quanto sono importanti strategie come queste nei progetti
di spazi dedicati al fruitore anziano?
Ho progettato numerose RSA. Una di cui sono particolarmente orgogliosa è quella di Omegna. Era la vecchia fabbrica della Lagostina, un vecchio opificio; l’ho fatta svuotare completamente e diventare una sorta di micro città, un borgo: invece dei corridoi ho progettato le strade, invece delle porte delle camere ho previsto i portoncini con il lunotto sopra, invece del numero della camera ho assegnato il numero civico fuori, quindi per esempio la signora Caterina stava al numero 3 di via dei Glicini.
Ho inserito delle piazze con le panchine: ho cercato di ricreare all’interno dell’edificio un micro tessuto urbano. Tutte le finestre arrivavano fino in terra, in modo che se la persona era costretta a letto o in poltrona, riusciva ugualmente a interfacciarsi con l’esterno. Parlando di laterizio: all’interno di questi corridoi non soltanto a Omegna, ma anche in un intervento a Gozzano e in altri ancora ho costruito i muri come se fossero dei bugnati, in altri casi con i mattoni a vista, perché il laterizio è un prodotto che riconoscono, caldo alla vista e al tatto; gli anziani riconoscono la materia, anche perché c’è una tradizione vicino al lago d’Orta con questa memoria storica. Infatti la casa di riposo Massimo Lagostina è completata esternamente in mattone; anche l’ampliamento dove è realizzato il centro Alzhaimer è costruito in mattone a vista in laterizio.
Più volte ha parlato anche di oggetti che hanno attinenza con lo spazio. Ci può dare una definizione di universal design? A fronte di un incessante processo di invecchiamento della popolazione, come l’universal design può aiutare a ridurre l’assistenza specialistica in RSA, ovvero quella domiciliare?
Certo, gli oggetti sono importantissimi. Universal design significa avere dei prodotti che non hanno nessun tipo di connotazione da handicap, significa costruire un mondo per tutti: se ho un display alla fermata dell’autobus, devo rallentare la scritta e metterla più
grande, per tutti, perché magari c’è il ragazzino di nove anni che deve andare a scuola da solo e anche a lui semplifica la vita. Non posso avere dei banconi alti in un bar dove l’anziano ha difficoltà a vedere il resto dei suoi soldi dopo aver preso il caffè, ma non posso non perché sono in carrozzella, ma solo perché non riesco più a vedere oltre una certa altezza; magari anche il ragazzino di 10 anni non arriva a vedere. L’universal design è il design per tutti.
In questo ambito sta conducendo ricerche all’interno dell’università? Quali?
Questo è il sesto anno che lavoro con una grande multinazionale del settore alimentare. Abbiamo esplorato tutte le problematiche del packaging legato agli anziani, ma come si diceva non solo agli anziani: conosco dei cinquantenni che per aprire la busta di prosciutto devono anche loro prendere il coltello, perché quella famosa linguettina alle volte non si prende pur non avendo l’artrosi. Abbiamo impostatoun corso sulle fette biscottate, poi anche sui prodotti da forno e sulla pasta. Abbiamo fatto le interviste agli anziani, li abbiamo filmati mentre aprivano, chiudevano, riponevano, mangiavano i vari prodotti. Gli studenti hanno raccolto una quantità di suggerimenti, hanno individuato tutte le criticità, hanno individuato anche le positività per incrementarle.
Hanno studiato concept nuovi. Siccome abbiamo a Genova la più grande Università della terza età abbiamo portato in aula tutti i concept dei ragazzi e li abbiamo fatti testare agli studenti della terza età, tutti over 70.
Siamo così riusciti ad avere l’input, il prodotto e poi l’output finale, in modo da capire quali di questi suggerimenti fossero più indovinati e quali andassero modificati. Per esempio, un altro problema che c’è sul packaging, o meglio sulla confezione, è la leggibilità di tutti i valori nutrizionali: l’anziano deve poterli vedere, l’anziano poi è curioso, vuol sapere quel particolare grano dove viene prodotto. Oggi l’anziano ha molto più tempo e gli piace controllare le materie prime, vedere da dove arrivano; spessissimo quando si tira la linguetta delle fette biscottate ci si portano via le istruzioni per smaltire la confezione e l’elenco dei valori nutrizionali. Gli anziani devono essere informati sui valori nutrizionali, perché molti hanno problemi di glicemie o di colesterolo, per cui in qualche modo devono sapere che prodotti ci sono all’interno. Di questo lavoro svolto sono orgogliosa perché ora vedo a scaffale i nostri progetti, i nostri concept che poi naturalmente sono stati ingegnerizzati dall’azienda.