Hans van der Heijden e Rick Wessels conducono dal 1994 lo studio di architettura biq. Qui di seguito, van der Heijden risponde ad alcune brevi domande che tendono a illustrare in maggior misura la «filosofia» progettuale del gruppo olandese.
Si può affermare che la vostra architettura privilegi volutamente il quotidiano e l’ordinario, quello che potremmo chiamare come una «storia minore» costituita dalla vita d’ogni giorno delle persone, realizzando progetti non spettacolari, ma attenti al contesto e alle esigenze reali della gente?
Chi siamo noi per poterci definire in grado di comprendere le esigenze reali delle persone? L’ossessione di gran parte dell’architettura d’oggigiorno è affermare la propria importanza nel più definitivo e indiscutibile dei modi. Ovviamente, di conseguenza, le idee non possono più essere di poco rilievo. Rick e io non esaltiamo l’ordinario e certamente non lo interpretiamo, né cerchiamo di farlo col fine di elaborare un giudizio personale su azioni o pensieri della gente comune. Non siamo Herman Hertzberger. Siamo interessati a tutto quello che condividiamo. Crediamo fermamente nel concetto di generalità in architettura, nella quale s’incrociano le espressioni della cultura popolare con quella più aulica. Non ci limitiamo alla riproposizione di nessuna delle due.
Questo si manifesta nell’immagine esterna dei vostri progetti che sembra usino intenzionalmente forme architettoniche «riduttive» (non astratte e/o assenti da caratteri ornamentali) estratte dalla realtà urbana circostante. Le opere da voi progettate riflettono appieno il vostro pensiero architettonico polarizzato principalmente sul quotidiano, invece che nella ricerca dello spettacolare a tutti i costi?
La forma «riduttiva» è un modo per raggiungere un senso di generalità. Quando si tolgono le decorazioni di una casa, il progetto sta più nell’impressione di chi poi l’osserva che nelle intenzioni o nell’abilità artistica del suo creatore. La realizzazione, poi, si spera, si avvicina a un’idea condivisa della casa. Speriamo che questo tipo di case si adatti facilmente alle esigenze di chi le abita e sia più capace di assimilarne i gusti. Gli edifici dovrebbero essere concepiti per affrontare anche tragedie e melanconia. Quando progettiamo un alloggio lo immaginiamo come un luogo di gioia e piaceri, ma anche di sofferenza e dolore. Una casa è il luogo dove le persone nascono e muoiono; fa anche da scenario ai funerali.
Anche adesso che la vostra opera è parte integrante della storia dell’architettura olandese, e pure se vi accostate a una certa tradizione architettonica nazionale, non siete molto pubblicati «in casa», come, invece, succede ad alcuni architetti «alla moda». Come vivete questa contraddizione? Essa costituisce una motivazione in più per il vostro futuro lavoro?
C’è un aneddoto su J.J.P. Oud, il quale, proprio come H.P. Berlage, parlava e scriveva fluentemente in tedesco. Cento anni fa i Paesi Bassi si concentravano molto sulla cultura architettonica dell’Europa centrale. Gli architetti olandesi guardavano verso Oriente. Amavano costruire solide strutture in mattone, pietra e cemento. Eppure, intorno alla Seconda Guerra mondiale, Oud comprese che l’inglese stava divenendo il linguaggio dell’architettura moderna e incominciò a impararlo attraverso la lettura di romanzi polizieschi. La sua padronanza dell’inglese segnò una svolta. Dopo quel momento, le fantasie di «sugarmodernismo» olandese si allontanarono dall’influenza centro-europea. Gli architetti olandesi, ora, rivolgono lo sguardo verso Occidente, meravigliati dal mondo inglese, dalle illimitate possibilità delle strutture in acciaio e dal peso leggero del loro rivestimento. Tuttavia, l’industria edile olandese non è cambiata così drasticamente ed è rimasta attaccata al modus operandi del costruire solidi edifici in pietra. Senza voler essere evangelico: ciò chiaramente non può essere negato da quegli architetti olandesi che amano costruire edifici durevoli nel tempo.
Molti interventi illustrati nelle pagine precedenti sono stati realizzati in situazioni urbane fortemente caratterizzanti. Questo costituisce un incentivo in più per cercare nuove soluzioni tipologiche, basta rispettare i perimetri del blocco urbano?
Le soluzioni tipologiche non nascono mai come un evento a sé stante. La gamma di un blocco urbano può essere espressa in molti modi diversi. Questioni banali, come la necessità sempre maggiore di parcheggiare le automobili nel tessuto urbano, provocano la sua innovazione. Il blocco formato da un insieme di alloggi, giardini e parcheggi va oltre soluzioni già note. Ci piace compararle con i superblocchi londinesi del diciannovesimo secolo. Le scuderie dell’epoca erano il risultato del benessere raggiunto dalla nuova classe borghese e ospitavano le stalle per i loro cavalli e i servitori. In molti dei nostri progetti, il cortile interno del blocco è utilizzato come parcheggio e posteggio delle biciclette. Dal momento che l’ingresso sul retro della casa è usato con più frequenza di quello sul davanti, è cambiata la concezione pubblica di fronte e retro. La tendenza è quella di far divenire sempre più formale quello anteriore.
Crede nella funzione sociale dell’architettura e che, quindi, essa possa avere un effetto sulla società in cui viviamo? Qual è la funzione principale dell’architetto: captare e interpretare le esigenze provenienti dalla società, cercare di «educare» le persone proponendo nuovi modi di abitare, o altro?
Sì e no. No, nel senso che l’architettura è una tecnica che dovrebbe avere la possibilità di venire studiata, insegnata e celebrata in maniera autonoma. E no, perché l’architettura intesa come veicolo di messaggi a carattere politico afferma tutto e niente. È un mezzo troppo astratto per la retorica. Ma sì, nel senso che non vi è bisogno di dire che la professione esiste solo grazie alle richieste fatte agli architetti. A parer mio, gli architetti non possono mai essere abbastanza precisi nelle negoziazioni sui loro progetti e distribuire lo spazio in cui fare la differenza. Se esiste un qualcosa di progressivo nel lavoro degli architetti, sarà inevitabilmente ispirato da decisioni razionali, dalla ricerca di fatti e da un congruo dibattito e dipenderà di gran lunga meno dalle buone intenzione del solo creatore, o peggio ancora, da politiche di simboli. Gli architetti dovrebbero porsi dei limiti. Essi possono, infatti, assumersi la responsabilità di solo una piccola parte dell’intervento effettivo.
Qual è la situazione in cui si trova un giovane architetto che sta iniziando la professione in Olanda? Qui in Italia abbiamo l’impressione che, per molti versi, nonostante la crisi economica presente in numerosi paesi europei, da voi ci siano grandi opportunità per poter costruire.
Sono pochi i paesi in cui le difficoltà e gli ostacoli per gli architetti sono così limitati come in Olanda. È d’uso comune che le imprese edili si assumano la responsabilità per la buona riuscita tecnica della realizzazione. Queste ultime costituiscono ormai i veri esperti per ciò che concerne gli aspetti tecnici della costruzione. Paradossalmente, questa pratica ha reso il mercato olandese più accessibile per i giovani architetti e, non dimentichiamocene, anche per architetti stranieri come Alvaro Siza, Hans Kollhoff e i fratelli Krier. L’esperienza degli architetti non è così fondamentale quando sono gli imprenditori ad averla. L’altro fattore è che l’architettura e la progettazione sono il punto forte del programma politico del governo olandese. Sebbene l’unione tra gli architetti non può essere vista da nessuna parte, questa «industria culturale» (come comunemente viene chiamata) è attivamente promossa all’estero dai diversi ministeri. E vi è anche un generoso sistema di borse di studio di supporto alla ricerca non accademica, alle pubblicazioni o ai dibattiti. Anche in questo caso, sono agevolati gli studi di architettura più piccoli e giovani. Tuttavia, è evidente che questa pratica ha impedito all’Olanda di sviluppare una cultura architettonica che vada oltre l’immagine e la coltivazione di storie e personalità. Gli architetti olandesi si sono abituati molto bene a saltare oltre gli ostacoli che i capitani dell’«industria culturale» pongono al loro passaggio. I miei sentimenti sono contrastanti riguardo a questa situazione!
Che rapporto avete con i clienti, credo, quasi tutti olandesi? Secondo la tua esperienza, sanno quale architettura progettate e qual è la vostro posizione riguardo all’architettura attuale? Inoltre, cercano, come tanti altri clienti, di darvi «suggerimenti»? E, alla fine, appaiono soddisfatti, o semplicemente preoccupati dalla realizzazione del profitto?
I nostri clienti olandesi sono soddisfatti degli edifici una volta terminati ma, alle volte, hanno difficoltà a immaginare il volume quando è ancora in fase di progettazione. «Il film è meglio del libro», una volta ci disse uno di loro. Ciò può essere dovuto ai materiali «forti» che amiamo usare. I mattoni che utilizziamo, per esempio, sono terribilmente complicati da rendere nelle rappresentazioni al computer. Avevamo una relazione più profonda con i clienti del Bluecoat arts centre di Liverpool. Bryan Biggs era un visual artist, Charlotte Myrhum un architetto d’esperienza. Normalità, realismo e generalità non sono concetti alieni al mondo dell’arte dopo Andy Warhol e Sol LeWitt. Quando ci proponemmo per il lavoro, fummo i soli tra i settanta partecipanti a proporre la continuazione del monumento esistente in mattone nella nuova ala e aspirarando ad un’armonia e coesione generale piuttosto che a una giustapposizione di stili differenti. Mostrammo delle fotografie del Convento di Sant’Angelo a Milano (nella foto) progettato da Giovanni Muzio e nessuno fu in grado di stabilire a che epoca risalisse. Bryan e Charlotte ci sollecitarono a dare rilievo nella nostra architettura a quest’aspetto senza tempo. Bryan fu il nostro primo e ultimo cliente a dire: «Tu mi hai perso. Non ho idea di cosa stai parlando. Ma se pensi che sia importante come dici, allora fallo e non cercare nessuna via di mezzo».
Il fatto che usiate il mattone così tanto deriva dalla situazione oggettiva in quanto progettate principalmente in Olanda paese noto per la sua ricca tradizione di esempi d’architettura in laterizio? O, anche, da altre considerazioni che riguardano le molte qualità costruttive di questo materiale?
Il mattone è un materiale meraviglioso che si deteriora lentamente. La muratura in mattoni del nostro social housing in Lakerlopen non esprime un’abilità artistica. Non ci sono ornamenti e nessuna adesione d’unitarietà tra le parti. Non possiamo più farlo in altri esempi di housing. Al massimo ci si potrà avvicinare. I giunti orizzontali delle pareti di Lakerlopen sono incavati e rientranti di 8 mm, mentre quelle verticali non sono riempiti. Come risultato, abbiamo ricavato delle forti linee d’ombra orizzontali che possiedono una «somiglianza» con la tradizionale costruzione in mattoni che poteva essere precedentemente trovata sul luogo. I mattoni color arancione, per nulla schiarito, offrono una composizione oltremodo apprezzabile. Siamo convinti che le possibilità tecniche ed estetiche che questo materiale è in grado di offrire non siano per nulla esaurite.