Usando e riusando materiali locali, nella savana della Tanzania è stato costruito un centro di aggregazione per bambini disabili, ben presto divenuto uno spazio comunitario unico nel panorama locale. Per realizzarlo, si è deciso di usare la migliore tecnologia localmente disponibile, cercando di raggiungere una buona qualità architettonica senza spreco di risorse
Wanging’ombe (parola di origine swahili che significa «passaggio del bestiame») è un vasto e disarticolato villaggio rurale di 18mila abitanti situato della regione di Njombe, nella Tanzania occidentale. La United Republic of Tanzania raccoglie in una geografia complessa una porzione dell’Africa sub sahariana, dando vita a un’immensa e pacifica nazione di 945mila km², inframmezzata da foreste tropicali, laghi, catene montuose e savana.
Il distretto di Wanging’ombe era un tempo una zona boschiva, trasformatasi in savana dopo un indiscriminato sfruttamento del terreno per la coltivazione intensiva del tabacco, oggi cessata. Il reddito pro capite dei suoi abitanti è più basso della media della nazione – già uno dei paesi più poveri del mondo – e la disperata condizione di abbandono dei disabili che vi abitano, ultimi tra gli emarginati, ha spinto un prete italiano ad aiutare la comunità locale a occuparsi di questi ultimi. Dopo i primi tentativi in un ex tabacchificio abbandonato, nel 2008 l’aiuto economico e tecnico di personale italiano ha permesso la costruzione di un nuovo e più dignitoso centro di aggregazione. Nella redazione del suo progetto si è cercato di superare la dicotomia tra chi realizzerebbe edifici nei paesi in via di sviluppo rispettando solo standard minimi, in modo che costino poco e diano la possibilità di investire in altre attività, e chi vorrebbe invece rispettare i nostri stessi standard, perché non dovrebbero esistere norme tecniche e qualitative che variano a seconda della ricchezza dei paesi. Per realizzare il centro – battezzato «Bethzatha», dal nome della piscina per infermi citata nel Vangelo – si è deciso di usare la migliore tecnologia localmente disponibile, cercando di raggiungere una buona qualità architettonica senza spreco di risorse.
Il suolo di Wanging’ombe è da tempo divenuto sabbioso ed è coltivato solo a mais con molta difficoltà, ma offre alcuni terreni argillosi la cui materia è adatta a realizzare mattoni.
Le abitazioni più antiche della regione di Njombe erano tradizionalmente costituite da spessi muri in terra battuta, che – laddove adeguatamente manutenuti – delimitavano stanze caratterizzate da piccole finestre, garantendo un’elevata inerzia termica. Vi sono anche costruzioni in mattoni lasciati essiccare al sole e protetti con un intonaco di terra, da rinnovare periodicamente, oppure cotti in maniera molto grossolana accendendo un fuoco in ogni stanza della casa.
I mattoni di qualità migliore sono però quelli prodotti per mezzo di forni autoportanti, composti in altezza da 12-15 file. Per cuocerli viene creata una grossa imboccatura utile all’inserimento del combustibile (solitamente grossi tronchi, destinati a bruciare lentamente e senza fiamma per diversi giorni), mentre gli interstizi vengono sigillati con fango per rallentare il più possibile la combustione del legname. Nonostante queste precauzioni è inevitabile che i mattoni più vicini al fuoco cuociano eccessivamente e quelli più esterni rimangano crudi. E poiché non è possibile considerare uno scarto questa parte preponderante della produzione, quando vengono realizzate murature portanti a due teste si scelgono i mattoni migliori per l’esterno e si usano gli altri per le pareti interne, non soggette al forte dilavamento della Stagione delle Grandi e delle Piccole Piogge.
Il carattere fragile dei laterizi così ottenuti causa una percentuale di sfrido di circa il 30-40%, causato da rotture che avvengono durante la movimentazione. Queste porzioni di mattoni sono reimpiegate come base delle pavimentazioni interne, per evitare che abbiano un contatto diretto col terreno. La cottura avvenuta a temperature relativamente basse non impedisce però la risalita capillare, sia che venga realizzato un sottofondo di calcestruzzo, sia che si usi della semplice terra battuta. In un paese come la Tanzania, in quest’area distante 12 ore dalla costa più vicina, la scelta del tipo di mattoni sembra la questione più semplice da affrontare, per lo meno considerando le altre: la mancanza assoluta di elettricità, la carenza d’acqua, l’assenza completa di alcuni semplici strumenti, di mezzi e materiali edili (e l’alto costo dei pochi altri disponibili), le scarse conoscenze della manovalanza. Invece non è così: per esempio nel centro Bethzatha era stato deciso di impiegare un lotto già pronto di mattoni cotti, salvo verificare che avevano dimensioni diverse pur provenendo dalla stessa autoproduzione a opera di due o tre manovali, che avevano fatto fare le loro casseforme di legno da falegnami diversi. Dopo la messa in opera e prima dell’intonacatura interna si è dovuto procedere alla regolarizzazione delle pareti usando una zappa. Anche la superficie stessa dei mattoni è sempre molto irregolare, perché prima di formare i forni vengono fatti asciugare sulla nuda terra per renderli maneggiabili, senza porre alcuno strato protettivo intermedio.
Per sostenere il peso di questi muri, il centro di aggregazione è stato dotato di una fondazione continua, composta da blocchi di granito sopra un letto di sabbia, legati con una malta bastarda di uguali parti di sabbia e di terra stabilizzata con il 10% di cemento. Questo genere di struttura distribuisce meglio i carichi sul terreno e diminuisce il rischio di crepe, mentre la sabbia ha una funzione dissipativa in caso di fenomeni sismici. La struttura è stata irrobustita da un cordolo di calcestruzzo armato, sopra il quale i mattoni sono stati posti in murature con tessitura gotica e tra loro legati con rapporti molto bassi di sabbia e cemento (due parti di sabbia e argilla e 1/10 di cemento). Agli angoli della costruzione sono state create strutture a piramide la cui malta di allettamento aveva un rapporto di cemento e sabbia di 1:3, utile a irrobustirle e a farne punto di riferimento per le successive file di mattoni.
Tra il cordolo di calcestruzzo e i laterizi è stato posto in opera un foglio di polipropilene ricavato dai sacchi di cemento usati, per prevenire l’umidità di risalita. Gli stessi sacchi, legati insieme, avrebbero potuto impermeabilizzare e isolare il sottofondo dei pavimenti, ma furono rubati dagli operai per realizzare coperture di fortuna. Dal punto di vista architettonico il progetto del centro si rivolge a forme tradizionali ma riconoscibili, per poter essere percepito sia come una inclusione, sia come una peculiarità del villaggio. In quanto punto di ritrovo di bambini considerati diversi e per questo ignorati da tutti, lo si è voluto capace di mostrare elementi di innovazione nel panorama locale, che potessero rendere fiera la comunità intera. wPer le attività quotidiane con i bambini si rendeva necessaria la presenza di una sala, con uno spazio per il gioco e un ufficio. L’aula centrale è stata illuminata e areata da quattro finestre e da una serie di aperture. Coperta da un’unica falda, ha il pavimento in battuto di cemento e pareti dipinte con figure di animali nello stile vivace dei Tinga Tinga, una tecnica di pittura tipica della Tanzania. L’esterno si è ispirato alle abitazioni locali, caratterizzate da un piccolo sporto della copertura che protegge le vita quotidiana all’esterno, al riparo dal sole e dalle piogge: a Bethzatha un grande portico, di 40 mq, permette che molte attività del centro si possano svolgere all’aperto. Per la cultura africana il portico dà un senso di accoglienza verso gli ospiti grazie ai suoi spazi ariosi, permettendo al viandante di sostarvi liberamente, cosicché tra gli spostamenti – sempre piuttosto lunghi in una savana quasi priva di alberi – egli possa riposare all’ombra. I cinque pilastri che sostengono il portico danno movimento alla struttura. Quattro pilastri simmetrici hanno un tenue color crema, ma ve n’è un quinto più piccolo, in disparte, dedicato ai bambini del centro perché simboleggia la loro condizione di disabili all’interno di una società che – più di altre – fatica ad accettarli. A differenza degli altri, questo pilastro è colorato di tonalità diverse e nella sua originalità è per i bambini il più bello, incessantemente impreziosito dalle loro impronte che firmano l’appartenenza al centro.
Per scelta progettuale non sono state intonacate tutte le facciate esterne, ma solo il lato più esposto agli agenti atmosferici. L’uso abbondante di intonaco a base cementizia sarebbe stato molto apprezzato localmente, essendo appannaggio di chi ha grandi mezzi economici e vuole distinguersi. Ma un centro comunitario deve essere sentito come proprio e non percepito come un regalo altrui: solo dipingendo di arancione e azzurro la facciata principale si è deciso di rimarcare le differenze da una normale costruzione e si è venuti incontro al gusto locale, amante dei colori accesi. Nella stessa parete, l’alta muratura cieca è stata decorata riusando bottiglie vuote per inserirle tra i mattoni. Esse riprendono le costellazioni che vi erano nel cielo italiano la notte del 17 novembre 2008, giorno in cui sono stati cominciati i lavori, e di notte – illuminando l’interno per le attività serali del centro – ricreano per gli abitanti di Wanging’ombe le lontane luci notturne di un paese amico.