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L’utopia misconosciuta

Fabrizio F.V. Arrigoni
Professore Associato presso il DIDA, Dipartimento di Architettura, ed insegna Progettazione architettonica presso la Scuola di Architettura e la Scuola di Ingegneria dell’Università di Firenze. Redattore della rivista di dipartimento “Firenze Architettura”, alterna la ricerca disciplinare con l’esercizio progettuale. Tra le pubblicazioni: Note su progetto e metropoli, prefazione di Vittorio Savi, FUP, Firenze 2004, Sinopie. Architectura ex atramentis, Die Neue Sachlichkeit, Köln 2011

 

Nada está construido sobre piedra; todo está construido sobre arena, pero debemos construir como si la arena fuera piedra.

Jorge Luis Borges

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The island of the day after è stata la titolazione della mostra ideata e coordinata da David Palterer e Norberto Medardi per il padiglione di Israele alla Biennale di Venezia del 2004, all’interno di “Metamorphosisrael – Back to the sea”. Il concept dei due curatori prospettava l’ulteriore espansione della città di Tel Aviv in direzione del mare come logica conseguenza della forte crescita subita negli ultimi settant’anni dalla città: l’intervallo occorso affinché una solitaria e dimenticata “spiaggia pastorale” divenisse il limite imposto alle pulsioni espansive di una metropoli contemporanea. Fu dunque chiesto a cinque protagonisti delle neo-avanguardie Radicals [1] – Andrea Branzi, Peter Cook, Coop Himmelb(l)au, Adolfo Natalini, Ortner & Ortner – di immaginare una serie di nuovi insediamenti o presidi su isole artificiali da ancorare in fronte ai sedici chilometri della costa urbana, secondo una prospettiva che incrociava tra loro, senza preventive demarcazioni, pensiero della trasformazione e fantasmagoria del futuro.
Nel volume che accompagnava l’esposizione era ospitato un breve saggio di Fulvio Irace, Utopicamente [2]. Il postulato d’apertura asseriva il tramonto della strategia utopica quale derivato del più vasto crollo delle grandi narrazioni legittimanti: come due tessere che non combaciano si constatava la mutua estraneità, se non la disgiunzione, tra condizione postmoderna e visionarietà del totalmente altro.

 

Constatando poi il connubio, per certi aspetti paradossale, tra ou-tòpos e puntigliosa descrizione del luogo felice seguiva un rapido excursus attraverso le molteplici miscele di cambiamento sociale ed innovazione morfologica ad esso applicata, dalle “città ideali” del diciannovesimo secolo transitando per le Neues Großstädte degli anni Venti e Trenta del ventesimo, per giungere all’ingegneria esaltata di Kisho Kurokawa, Kiyonori Kikutake Yona Friedmann, Buckminster Fuller e Alexandre Chipkov ed alle drive-in city, walking-city, plug-in city degli Archigram, quasi una stilizzazione della società affluente partorita da un rinvigorito capitalismo del dopoguerra. A chiusura dello scritto la presa d’atto che a fronte delle indomite palingenesi – otto-novecentesche ciò che sembra restare nel setaccio del nuovo millennio sia solo un’ultima quanto immarcescibile fiducia nel dettato tecnologico – dolce quanto discreto nella sua ultima veste digitale: MVRD, Meta City Data Town – a patto che esso si riveli del tutto mondato dal più trascurabile residuo di antagonismo di classe o di critica militante [3] ed appoggiandosi ad uno spunto di Karl Mannheim [4] il riconoscimento che, pur nelle cicliche e talvolta rovinose cadute, la modellazione ideale aveva comunque assolto al ruolo di traguardo e meta della prefigurazione, tramutandosi nell’asse asintotico a cui far tendere le contingenti prove concrete (impiego indiretto e sotterraneo dell’utopia). Una funzione di regolo non sempre esplicitamente affermata ma attiva e fecondante, andata miseramente ad estinguersi nel congestionato, inanimato, insignificante glomus del neoliberismo dominante (Heterogonie der Zwecke: permutazione di ogni esteriorità o conflittualità in merce, moda, spettacolo, innocua virtualità …) ...